Orrore cinese: testimonianze dai campi di concentramento

I campi sono operativi dal 2014 e gestiti nella regione autonoma di Xinjiang Uyghur. Anche se portano ufficialmente il nome di “centri di istruzione e formazione professionale”, i campi in realtà sono stati aperti con lo scopo di internare i musulmani.

Pare siano stati arrestati e internati un numero di persone compreso tra il milione e i tre milioni, tra cui una grande maggioranza di musulmani, ma anche cristiani e altre minoranze etniche. Nel 2019 gli ambasciatori delle Nazioni Unite di 23 paesi, hanno firmato una lettera di condanna contro i campi di concentramento in Cina, ma ben 54 hanno firmato contro, sostenendo la politica cinese.

Nelle aree urbane, per questo scopo, sono stati convertiti degli edifici già esistenti, spesso scuole, mentre in aree più in periferia gli edifici sono stati costruiti dalle fondamenta.

All’inizio del 2018 il China Digital Times ha confermato che sono almeno 120.000 i detenuti nei campi solo nella prefettura di Kashgar. L’attivista politica Rebiya Kadeer (di origine uiguri, un’etnia turca) in esilio dal 2005, afferma che almeno 30 dei suoi parenti, che risiedono in Cina, sono stati arrestati o sono scomparsi senza lasciare notizie. Kayrat Samarkand, un cittadino kazako residente in Cina, è stato internato nei campi per tre mesi per aver visitato il suo stato natale. Rivelò di aver subito diversi lavaggi del cervello e umiliazioni e venne obbligato a studiare la propaganda socialista cinese.

Mihrigul Tursun, di origini uigure, dopo essere fuggita dai campi raccontò le torture subite. Nel 2015 era andata in Cina con la famiglia per un viaggio. Venne separata dai suoi figli piccoli e internata appena mise piede nel paese. Quando venne rilasciata, raccontò che una delle sue figlie morì e che gli altri due avevano sviluppato delle malattie per via di alcune operazioni subite. Tre mesi dopo venne arrestata di nuovo. Raccontò che venne messa in una cella con altre 60 donne, che dovevano fare i loro bisogni sorvegliate dalle telecamere e che erano tutti obbligati a cantare inni socialisti. Affermò che i detenuti vengono obbligati a prendere farmaci sconosciuti, probabilmente sono usati come cavie per i test, vengono obbligati a prendere un liquido bianco che causa sanguinamenti e problemi con le mestruazioni. Durante i suoi mesi di prigionia ben 9 donne della sua cella morirono. Tursun racconta anche che una volta è stata condotta in una stanza da sola. Braccia e gambe legate, le è stato messo un casco che le dava la scossa e che tutto il corpo tremava. Non ricorda molto di quel che è successo, ricorda solo che ha perso i sensi dopo che dalla sua bocca ha iniziato a uscire della schiuma. Venne rilasciata per poter riportare i suoi figli in Egitto, ma con l’obbligo di ritornare in Cina. Una volta in Egitto Tursun raccontò tutto alle autorità statunitensi. Altri detenuti hanno raccontato che anche loro erano obbligati a conoscere la propaganda socialista cinese, l’inno cinese e altre canzoni. Chi non riesce a impararle o a seguire, viene torturato, ammanettato, obbligato a stare legato per ore alla “sedia della tigre”. I detenuti musulmani vengono obbligati a mangiare carne di maiale e bere alcolici.

Spesso molti detenuti tentano il suicidio. Molti sono i detenuti che hanno raccontato di torture sessuali, aborti forzati, sterilizzazioni e stupri.

Sarsenbek Akaruli è stato internato il 2 novembre 2017. Attualmente si trova ancora nei campi. Sua moglie sostiene che sia stato arrestato perché aveva Whatsapp sul telefono, app vietata in Cina. L’ex prigioniero Bakitali Nur, originario di Khorgos, venne arrestato perché i suoi viaggi frequenti all’estero erano “sospetti”. Riferì di aver passato un anno in cella con altre 7 persone e che erano obbligati a stare seduti su degli sgabelli per 17 ore, senza poter parlare o muoversi. Chi si muoveva veniva punito. Erano costantemente sorvegliati. Una volta liberato, Nur dovette informare le autorità di ogni suo spostamento. Nel maggio 2019 è riuscito a scappare in Kazakistan e affermò “l’intero sistema è progettato per sopprimerci”.

Il 16 novembre 2019 il New York Times è entrato in possesso di 400 documenti provenienti dal governo cinese e li ha diffusi.

I documenti spiegano le torture nei confronti di musulmani e altre minoranze etniche. Si può leggere anche un discorso del presidente Xi Jinping del 2014 in cui dice di non avere nessuna pietà. I documenti contengono anche un manuale distribuito alle forze dell’ordine in cui viene spiegato loro come avvicinare i figli dei detenuti, come spiegare loro che i genitori erano stati portati in “scuole di addestramento” e che se i ragazzi avessero posto resistenza, le autorità erano autorizzate a usare la violenza. I documenti mostrano anche che i prigionieri non hanno commesso nessun reato, ma che si tratta di puro odio razziale. Dai testi pare che Xi temesse un crollo del partito socialista cinese, come avvenne con l’Unione Sovietica. Nel 2018 un funzionario del governo, Wang Yongzhi, venne rimosso dal suo incarico per “gravi violazioni disciplinari”. È trapelato, sempre nei documenti rilasciati dal New York Times, che avesse rilasciato 7000 detenuti, perché sosteneva che tutte quelle violenze avrebbero provocato mal contento e magari possibili rivolte. Il 24 novembre 2019 – pochi giorni fa – viene pubblicato un manuale per la gestione dei campi, in cui viene spiegato nel dettaglio il ruolo della polizia, come colpire le persone nei campi e come regolare la vita all’interno di essi.

Sofia Recupero IIIF